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Cristiano Eirale, il medico milanista alla corte del Paris Saint-Germain

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Non tutti lo sanno, ma a coordinare i servizi sanitari del Paris Saint-Germain c’è un medico italiano: il professor Cristiano Eirale. La sua storia merita di essere raccontata: classe 1975, calciatore mancato, Cristiano Eirale è nato in Piemonte (precisamente ad Alba, la capitale del tartufo bianco e della Nutella) ma non tifa Juventus o Torino come la maggioranza dei piemontesi: è, infatti, tifoso del Milan. E, ironia della sorte, ha iniziato la carriera di medico dello sport con i “rivali” dell’Inter. Milan Reporter lo ha intervistato in esclusiva, approfittando della sua grande gentilezza e disponibilità.

Prof. Eirale, come mai ha scelto di tifare Milan?
«
Avevo sei anni e correva la stagione calcistica 1981/82. Ero alla “Standa” con mia mamma. Arrivati nel reparto dedicato all’abbigliamento sportivo, iniziai a fare i capricci: volevo la mia prima maglietta da calcio. Mamma si convinse e comprò l’unica maglietta che era della mia misura. A casa chiesi a mio papà, tifoso del Torino, di quale squadra fosse quella maglietta: era del Milan! Decisi allora di essere tifoso dei rossoneri, nonostante, mi accorsi poco dopo, quelli fossero anni particolarmente sfortunati per il Diavolo, alle prese con le due tremende retrocessioni».

Come è nata la sua passione per il calcio?
«Amo il calcio da sempre. Ho iniziato giocando nelle squadre giovanili e oratoriali della mia città, Alba. Ero bravino. A 17 anni, però, mi ruppi il legamento crociato anteriore: dovetti operarmi e restare fermo un anno. Al rientro, il ginocchio fece ancora crac. A quel punto decisi di abbandonare le ambizioni agonistiche e mi concentrai sugli studi medici, con l’obiettivo di trovare un’occupazione che mi permettesse di tornare su quei campi da gioco che avevo lasciato bruscamente. È per questo che, dopo la laurea in medicina conseguita all’Università di Pavia, decisi di specializzarmi in medicina dello sport: sognavo di diventare medico del Milan». 

E, invece, ironia della sorte, arrivò l’Inter…
«Negli anni degli studi specialistici, lavoravo in un ambulatorio di traumatologia dello sport a Pavia. Il primario del reparto era il consulente ortopedico dell’Inter e Franco Combi, all’epoca medico dei nerazzurri, era alla ricerca di un aiutante che lo affiancasse nella gestione della prima squadra: scelse proprio me. Da lì iniziò la mia esperienza all’Inter, durata due anni. Conservo tantissimi ricordi, tantissime emozioni: la prima volta a San Siro “entrando dal tunnel”, la prima in Champions League e le giocate di tanti campioni, tra cui Vieri, Adriano, Veron, Javier Zanetti e Materazzi. Di quest’ultimo sono diventato molto amico. Non lo avrei mai immaginato visto che non lo amavo particolarmente per via dei “calcioni” rifilati a Shevchenko e Inzaghi in alcuni derby: poi, però, ho scoperto che è un ragazzo fantastico».

Perché Cristiano Eirale ha lasciato l’Inter?
«Un giorno si presentò agli allenamenti dell’Inter una delegazione giunta dal Qatar che mi chiese di trasferirmi nel loro Paese per occuparmi di un centro di medicina sportiva all’avanguardia che stavano costruendo (“Aspetar”). Insieme a mia moglie Francesca decisi di accettare l’offerta, anche se temevo che il lavoro in clinica mi avrebbe fatto mettere il calcio da parte. Invece, poco dopo, mi ritrovai a essere responsabile medico delle squadre nazionali del Qatar e a partecipare a partite di qualificazione ai Mondiali, alla Coppa d’Asia e alla Coppa del Golfo».

Da profondo conoscitore del Qatar, che Mondiale sarà quello del 2022?
«
Lo slogan scelto dagli organizzatori è “expecting amazing”. Mi aspetto esattamente questo: un Mondiale dallo spettacolo indescrivibile. Immagino un evento estremamente all’avanguardia, con metropolitane che arrivano direttamente dentro gli stadi e altri servizi mai visti prima. Il Mondiale in Qatar potrebbe davvero segnare l’inizio della nuova era del calcio. Dall’altro lato, però, rischia di essere la Coppa del Mondo più “mediatica” della storia, con la maggior parte dei tifosi che sarà costretta a seguire i match in TV, o attraverso gli altri media, e non dal vivo».

Sempre restando in Qatar, lei ha coordinato i servizi medici della finale di Supercoppa Italiana che si è disputata nel 2016, a Doha, con la vittoria del Milan di Montella sulla Juve ai calci di rigore. Ha portato fortuna ai rossoneri!
«Le racconto una curiosità su quella partita: uno dei miei figli ha 7 anni e purtroppo, da quando è nato, ha visto sempre e solo la Juve vincere in Italia. Quella sera era con me: è stato bellissimo, perché ha potuto festeggiare per la prima volta un trofeo del Milan, per di più dal vivo».

L’esperienza in Qatar le ha aperto le porte del calcio mondiale.
«Tramite il centro medico del Qatar “Aspetar” sono stato medico dell’Algeria ai Mondiali del 2010, in Sudafrica e della Costa d’Avorio nella Coppa del mondo del 2014, in Brasile».

Come viene vissuto il calcio in Africa?
«Come un affare di stato: il calcio in Africa è veramente importante. Non vorrei banalizzare, ma sembra quasi che con il calcio queste popolazioni cerchino di dimenticare i tanti problemi con cui devono purtroppo confrontarsi ogni giorno. Ricordo, in particolare, l’affetto e il calore verso la Nazionale algerina durante il ritiro pre-mondiale del 2010: in occasione di un’amichevole giocata in un paesino periferico della Germania si presentarono ben 20.000 tifosi algerini provenienti da tutta Europa. Un entusiasmo incredibile!».

Passando alla Costa d’Avorio è d’obbligo una battuta su Drogba.
«Un grandissimo personaggio ma soprattutto un campione con la “c” maiuscola, estremamente carismatico. Mi sarebbe piaciuto vederlo giocare con la maglia del Milan».

Dopo Inter, Qatar e Coppa del mondo, la chiamata del Paris Saint-Germain.
«Nel centro medico in Qatar io e altri colleghi seguivamo alcuni infortunati “eccellenti” della squadra parigina e ci occupavamo degli esami “pre-firma” dei giocatori prossimi al trasferimento al PSG. Nell’ambito di questa collaborazione, mi è stato chiesto di trasferirmi a tempo pieno al Paris Saint-Germain, con il ruolo di coordinatore dei servizi sanitari di tutte le realtà sportive della società, quindi non solo delle squadre di calcio maschile ma anche delle squadre di calcio femminile, pallamano e judo. Volendo semplificare, i miei compiti sono principalmente due: ristrutturare e organizzare lo staff medico del PSG e gestire la clinica medica sportiva che sorgerà all’interno del nuovo centro di allenamento della squadra. Un progetto meraviglioso: probabilmente il massimo che si possa raggiungere in questo settore lavorativo».

Cosa manca al PSG per trionfare in Champions?
«Manca la mentalità della grande squadra abituata a vincere in campo internazionale. I grandi giocatori, in questo senso, non bastano. Ci siamo fatti eliminare, da “polli”, dal Manchester United, perché non abbiamo badato al fatto che loro sono abituati a vincere questi tipi di partite e, quindi, abbiamo trascurato alcuni dettagli che sono risultati decisivi. Credo comunque che il PSG sia sulla strada giusta: dando continuità a questo ampio progetto sportivo, che l’ha portata a entrare nella Top 6 dei brand più conosciuti al mondo, la società riuscirà nel giro di qualche anno a conquistare la Champions. Con un pizzico di fortuna, già questa stagione potrebbe essere quella giusta».

Che rapporto ha con Thiago Silva?
«È un giocatore fantastico e una bellissima persona. Con lui commento spesso i risultati del Milan e, quando va male, siamo entrambi dispiaciuti. Si vede che Thiago ha ancora il cuore rossonero».

Non crede che il Milan per fare il salto di qualità debba puntare su un giocatore come Verratti?
«Stiamo aspettando la sua definitiva consacrazione, che arriverà nei prossimi due-tre anni. Arrivato giovanissimo a Parigi, ha fatto benissimo fin da subito; ora è ancora più maturo e ha risolto molti problemi fisici che lo tormentavano, riuscendo così a giocare con continuità. Nel futuro potrebbe fare comodo a molte squadre: se non sarà il PSG, spero possa essere il Milan».

Guardando in casa Milan, da esperto del settore medico come giudica Milan Lab?
«Quando venne lanciato, circa vent’anni fa, si presentava come un progetto fantastico: partendo dalla raccolta e dalla successiva elaborazione informatica dei dati fisici e atletici di ciascun giocatore, Milan Lab si prefissava di migliorare le performance degli atleti anche attraverso la prevenzione degli infortuni. Forse, però, i risultati ottenuti non sono stati quelli sperati. Nessuno ha colpa, perché è difficilissimo applicare un sistema ad elevato contenuto scientifico e informatico a una squadra di calcio di alto livello, nella quale sono presenti diverse variabili difficilmente controllabili, tra cui, solo per citarne una, la tipologia di allenamento, che varia da allenatore ad allenatore».

Nel caso di Alexandre Pato cosa non ha funzionato?
«
Uno dei fisioterapisti del Paris Saint-Germain ha lavorato per due anni al Milan, proprio nel periodo in cui in rossonero c’erano siano Ronaldo che Pato. Con lui parlo spesso di Alexandre. Sono giunto alla conclusione che il ragazzo avesse parecchi fattori di rischio che lo predisponevano a infortuni».

Le piacerebbe tornare a lavorare in Italia, magari proprio al Milan, di cui è tifoso?
«La squadra del cuore resta, per sempre, ma essendo un professionista, quando sono “in campo” penso a svolgere al meglio il mio compito e, quindi, faccio di tutto affinché la squadra per cui lavoro possa raggiungere gli obiettivi prefissati. Detto questo, mi piacerebbe un giorno tornare in Italia: considerato che, come dicevo prima, da giovane speravo di diventare medico del Milan, sarei felice che ciò accadesse in futuro! Chissà!».

Chiudiamo l’intervista con uno sguardo al futuro del calcio. L’avvento dei grandi investitori da tutto il mondo e la corsa agli sponsor e ai diritti televisivi non si rischia di far perdere a questo sport la dimensione popolare che da sempre lo contraddistingue?
«Mi torna in mente il ritornello di una canzone che ascoltavo durante le partite della squadra della mia città. Faceva così: “Il calcio è amore, il calcio è vita, gioca col cuore la tua partita”. Credo che alla fine sia davvero così. Ci sono le grandi squadre che la fanno da padrone comprando i grandi campioni, ogni aspetto è ormai spettacolarizzato all’estremo, con partite a ogni ora del giorno; ma questo sistema rischia di collassare.

A mio avviso, per far restare il calcio uno sport puro occorre continuare a trasmettere ai giovani i valori autentici di questa disciplina, che poi sono anche i valori della vita. Gli allenatori devono quindi essere sempre più spesso, oltre che preparati a livello calcistico, tattico e tecnico, anche e, soprattutto, dei maestri di vita, facendo in modo che il calcio, pur restando uno spettacolo e un business, sia un’opportunità per permettere ai ragazzi di imparare a vivere».