Novanta minuti con Alberto Zaccheroni sono una di quelle esperienze che riconciliano con il calcio, quello più autentico e appassionante.
È una mattina di metà agosto e il sole è già alto in cielo. Il caldo, però, è sopportabile: merito del vento che, come ogni giorno, soffia, insistente e vivace, sulla costa adriatica. Siamo a Cesenatico, nella zona del porto-canale progettato da Leonardo Da Vinci. Lì c’è il Maré, ovvero cucina, caffè, spiaggia, bottega: una struttura unica nel suo genere che permette di andare oltre la classica esperienza di “mare”. Anima del locale è Luca Zaccheroni, figlio di mister Alberto.
Lui, il Mister, capita spesso da quelle parti, specie all’ora di colazione. «A Cesenatico si sta bene», mi dice Zaccheroni con sguardo convinto, «In inverno non siamo più di 20mila persone ma ci sono sempre più proposte. È una città in crescita». Poi ci spiega come sono organizzate le spiagge, ci parla del centro storico e dei migliori locali dove gustare la «vera piadina», ma anche di come lui trascorre le giornate, delle sue passioni (tra queste c’è pure il tartufo e per chi arriva da Alba come me è un enorme piacere!).
Tra un «buongiorno, Mister» e l’altro il discorso finisce presto sulla sua passione più grande, il calcio. Sul tavolo ci sono i miei libri milanisti. Prende in mano “Scudetto 19” ed esclama: «È fantastico essere tifosi del Milan. Guardi che colori, il rosso e il nero. E poi con lo scudetto…». Ha ragione. Del resto, di scudetto lui se ne intende, essendo stato l’artefice di uno dei tricolori più memorabili della storia rossonera. Quello del 1998/99. «Era una squadra con giocatori forti che però avevano dato tutto, o quasi… Sia fisicamente che mentalmente. L’undicesimo posto ottenuto due anni prima da Sacchi e il decimo di Capello lo dimostravano…».
Come fu possibile la svolta? «Un nuovo metodo di lavoro, che va oltre all’introduzione del 3-4-3… Mi riferisco a nuovi stimoli assieme all’orgoglio ritrovato». Allora, partiamo dall’inizio della cavalcata rossonera. «I senatori e, in particolare, Maldini, Costacurta e Albertini si misero a completa disposizione. Questo spirito è nel loro Dna. Diedero la disponibilità a giocare con il nuovo modulo e così anche il resto della squadra mi seguì».
A livello mentale lo scatto decisivo avvenne a sei giornate dalla fine del campionato. «Eravamo stati bravi a non mollare e a tenere la scia della Lazio; poi arrivò la loro sconfitta con la Juve e noi vincemmo in maniera netta a Udine. In quel momento in tutti si accese la voglia di vincere lo scudetto». E tricolore fu, vinto con una volata fatta di sette vittorie consecutive. Grazie anche ad alcuni miracoli di Abbiati («Quando Galliani mi disse che il terzo portiere, Aldegani, sarebbe stato ceduto al Monza, gli spiegai che un sostituto sarebbe servito e così prese Abbiati dal Monza. Una benedizione!») e a tanti gol, frutto di un bel calcio particolarmente studiato e preparato, e un’intensità di gioco a tratti entusiasmante.
Sugli scudi anche Bierhoff: «Non è vero che era bravo solo di testa. Ha segnato la maggior parte dei suoi gol di piede. Il segreto fu coinvolgerlo nel gioco, nella manovra: doveva giocare spalle alla porta, arretrare, ricevere palla dalla mediana e poi smistarla sulle corsie laterali, fino a lanciarsi verso la porta avversaria, nello spazio dove sarebbe arrivato il pallone. Arrivando lanciato sul pallone, con la sua stazza, non dava scampo ai difensori. Se invece fosse rimasto fermo in area, in attesa della palla, sarebbe stato neutralizzato. Spesso non è stato capito». Zac, invece, lo aveva capito, riuscendo a farlo esprimere al meglio. Proprio come accadde con Boban, «a cui diedi la possibilità di muoversi liberamente, da regista, nel tridente d’attacco, sapendo che per propensione naturale avrebbe comunque poi coperto soprattutto la parte di sinistra».
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Zac riuscì poi a esaltare le migliori qualità anche di tanti altri giocatori, che oggi il tecnico romagnolo considera come veri e propri «figli». Pensiamo appunto a Bierhoff, ma anche a uno dei suoi più fedeli assist-man, Helveg. E poi ad Abbiati, a Frezzolini («Il terzo portiere ideale, perfetto per il Milan dopo la partenza di Lehmann»), ma anche a Coco e, guardando oltre il rossonero, a Marcio Amoroso e Dejan Stankovic. A Coco, in particolare, è legato un ricordo particolare. «Rientrato al Milan dal prestito, mi chiese quali fossero le mie gerarchie per la fascia sinistra. Erano queste: Guglielminpietro, il titolare dello scudetto, dietro di lui il neoacquisto Serginho, poi lui. Conoscendone indole e qualità, gli diedi due giorni per decidere se chiedere la cessione oppure rimanere al Milan e giocarsi una maglia da titolare. Tornò da me dopo poche ore: scelse di restare e tirò fuori una grinta incredibile che lo portò a guadagnarsi un posto da titolare. Aveva doti atletiche pazzesche, oltre a qualità tecniche indiscutibili. Purtroppo, nel prosieguo della carriera, non fu fortunato. Dopo un’operazione subìta ai tempi dell’Inter – per rimediare a un dolore che si presentava di tanto in tanto nella zona lombare – il suo fisico non riuscì a tornare quello di prima e la sua carriera fu per sempre compromessa». Al Milan lasciò comunque un segno importante, risultando decisivo nella storica vittoria per 2-0 al Camp Nou contro il Barcellona, nella Champions 2000/01, in cui andò anche in gol.
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Una partita entrata nella leggenda ma che segnò un punto di non ritorno nella storia tra mister Zaccheroni e il presidente Berlusconi. «Fino ad allora c’era stato rispetto reciproco, non c’erano state ingerenze da parte di Berlusconi. Le polemiche erano sui giornali. Ma dopo Barcellona mi chiamò arrabbiato: erano le 3 di notte, non gli piaceva la difesa a 3 e voleva le 2 punte…». L’ex allenatore milanista, in ogni caso, non ha rimpianti, per quanto si fosse legato ai colori rossoneri. «All’Inter avrei di nuovo potuto vincere il campionato e poi, dopo l’esperienza alla Juve, è arrivato il Giappone». E qui il Mister si illumina ancora: «Ho guidato la nazionale nipponica per quattro anni. È stato come vivere in un cartone animato. Straordinario». Un’avventura speciale, sublime fin dall’inizio. «Ancora non mi spiego un’accoglienza del genere. O forse, sì. Probabilmente ho diversi atteggiamenti vicini alla cultura giapponese. Fatto sta che ho ricevuto un lungo abbraccio, incredibilmente intenso».
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Merito sicuramente anche dei risultati ottenuti: la vittoria della Coppa d’Asia su tutti, oltre alla qualificazione ai Mondiali. «Giocavamo un calcio intenso e veloce, sembrava di essere tornati ai tempi dell’Udinese. Battemmo anche l’Argentina. E facemmo un lungo filotto di vittorie. Così crebbero fiducia e consapevolezza. Credevo che tutto ciò ci avrebbe portato a fare grandi cose anche alla Coppa del Mondo: purtroppo, però, i miei giocatori patirono la storia, ovvero il fatto che il Giappone non era mai riuscito ad andare oltre gli ottavi. E ciò fece perdere molte certezze».
Il legame con il Paese del Sol Levante è comunque rimasto splendido. «Ci torno almeno una volta l’anno. Purtroppo, con la pandemia, ho dovuto interrompere i viaggi. Spero di poterci andare presto. Mi amano ancora molto. Per tutti, ancora oggi, sono Zac-San. Peraltro, ho scoperto che tanti genitori hanno chiamato i loro figli Zaky, proprio in mio onore. E poi non posso dimenticare l’incontro con tantissime personalità del Paese, a partire dall’Imperatore: a nessuno è consentito di toccarlo. Lui mi mostrò la mano perché gliela stringessi. Ovviamente, gliela diedi…».
In attesa di tornare a fare visita alla sua seconda casa, mister Zaccheroni guarda «tanto calcio. Continua a piacermi tantissimo. Soprattutto la Serie A. Si fanno tanti confronti con la Premier ma anche qui, rispetto ad anni fa, si compiono giocate di altissimo livello a ritmi velocissimi. Per chi ha respirato per molti anni l’aria della Serie A non c’è spettacolo migliore». E, nel frattempo, continua ad assaporare pure l’atmosfera della panchina. «Da qualche mese sono l’allenatore della Nazionale italiana non profit. La stella è uno dei “miei” ragazzi, Abbiati. Giochiamo per beneficenza e con le partite raccogliamo fondi da destinare a progetti sociali. Non c’è davvero niente di più bello del calcio».
Ha ragione, mister Zac.